L’uomo nelle religioni dell’Estremo Oriente

L’uomo nelle religioni dell’Estremo Oriente

Quando diciamo “Le religioni dell’Estremo Oriente” dovremmo parlare certamente del buddhismo, della tradizione cinese – con il confucianesimo e il taoismo –, della religione tradizionale del Giappone – lo scintoismo –, delle espressioni sciamaniche della religiosità popolare in Corea e nelle altre civiltà dell’Estremo Oriente. Tuttavia, una presentazione esaustiva della visione antropologica che soggiace a queste esperienze religiose asiatiche, richiederebbe molto più spazio di quello che ho a disposizione. Perci , mi limiter ad alcune brevi pennellate in generale, entrando un po’ più specificamente nella visione buddhista. Ovviamente, devo premettere che la mia sarà una lettura fatta dall’ottica cristiana, pur cercando di capire – per quanto mi è possibile – l’ermeneutica interna di queste ricche e antiche tradizioni religiose.
Anzitutto, dovremmo dire che forse sarebbe meglio parlare di “tradizioni spirituali” piuttosto che di “tradizioni religiose”. Se usiamo il termine “religione”, infatti, dovremmo contemplare le diverse sfumature che questo concetto comporta in ambito occidentale e potrebbero esserci dei fraintendimenti. Infatti, il termine religio richiama più esplicitamente nell’immaginario collettivo ad un culto rivolto verso la Divinità, ad una dottrina su di Essa e ad un impegno morale che emerge chiaramente da questa fede religiosa; e non sempre nelle cosiddette “religioni dell’Estremo Oriente” questi elementi sono esplicitamente presenti. Se parliamo invece di “tradizioni spirituali” è chiaro, in ogni caso, che ci riferiamo a quella dimensione più profonda dell’uomo: dell’uomo che si chiede su se stesso, sul senso della propria esistenza, su come deve vivere e sviluppare questa esistenza in armonia con se stesso, con gli altri, con la natura, con il Principio Ultimo che fondamenta quanto esiste. In una parola, l’esperienza dell’uomo che si apre radicalmente al Mistero. Quest’atteggiamento di apertura sincera al Mistero, pu considerarsi probabilmente l’asse basilare delle diverse tradizioni spirituali dell’Estremo Oriente.
In queste tradizioni, l’uomo si autocomprende essenzialmente come una parte del Tutto. Anche la tradizione ebraico-cristiano colloca l’uomo all’interno dell’insieme del cosmo, ma lo considera anche colui che lo governa, colui al quale viene affidata la Creazione intera. Secondo i racconti biblici, il cosmo e la Natura, così come l’uomo stesso, sono creazione di Dio; secondo le tradizioni spirituali dell’Estremo Oriente, invece, il mondo e l’uomo non sono creazione di Dio, ma esistono secondo una Legge Eterna insita alla Natura stessa, che l’uomo cerca di cogliere e comprendere attraverso un cammino di impegno spirituale e morale. Quindi, l’uomo non è il centro del mondo, l’uomo non pu governarlo dal di fuori o dal di sopra: l’uomo è un’espressione di questo Tutto che si manifesta in lui.
Approccio impersonale al Mistero
Nei riguardi della Realtà Ultima, nella cultura cinese si stagliano due concetti fondamentali: quello di Tian 天 (“Cielo”) e quello di Tao 道 (“Via”). L’ideogramma Tian天indica certamente il cielo visibile che è sopra di noi, ma anche quella Realtà metafisica, invisibile e trascendente, che sorregge e anima tutto ci di cui l’uomo pu fare esperienza tangibile e diretta con i sensi corporali. Così come in terra deve esserci un ordine, così in Cielo c’è un ordine eterno, una legge cosmica universale; di conseguenza, l’uomo deve sforzarci a cogliere quest’ordine eterno celeste per vivere in armonia in terra con gli altri e con le forze della Natura. L’ideogramma Tao 道 significa “via, cammino”, e viene usato non soltanto per designare le strade fisiche, ma tutti quei percorsi spirituali che guidano l’uomo nel suo processo di maturazione e di sviluppo lungo la propria esistenza. La vita stessa è intesa come una “via da percorrere” lungo la “Via” per eccellenza che è la Realtà in quanto tale in se stessa. L’esistenza umana e l’intero universo in costante movimento sono compresi come un qualcosa in continua evoluzione e sviluppo. Esistere vuol dire cambiare, mutarsi, trasformarsi, interagire, essere in cammino. Il mondo non è in sé, ma è tanto in quanto diventa nel tempo qualcosa d’altro. Quindi cosa deve fare l’uomo? Deve camminare secondo il ritmo del mondo, secondo il ritmo interno della sua natura più profonda. Deve cercare di cogliere questa Legge Eterna che ci verrebbe dal Cielo, e qui si introduce un altro concetto fondamentale, che diventa centrale nella tradizione buddhista: quello di Dharma, termine sanscrito che corrisponde all’ideogramma cinese Fa 法 (“Legge”).
I concetti di Cielo, Via e Legge, sono fondamentali per cogliere la metafisica e l’antropologia delle spiritualità asiatiche. Il Cielo è qualcosa di etereo, ambiguo, generico, trascendente, al di sopra di ogni visualizzazione e di ogni concettualizzazione. Il Tao è la Via che ci invita ad essere sempre alla ricerca del nostro vero Sé. Quindi, l’uomo è qualcuno che è in cerca costante di qualcosa di più. È qualcuno che guarda dentro di sé per rivolgere lo sguardo del cuore verso il Cielo. È qualcuno che scava dentro di sé per lasciarsi illuminare dalla luce interiore che sgorga dal Dharma, la Legge Eterna che regge tutto quanto esiste e che si rende presente nel cuore umano.
Nello scintoismo giapponese, l’oggetto di culto sono numerosi kami o “spiriti divini”, ma tutti questi kami sono espressione di un unico Principio Divino Cosmico, inteso come forza o energia vitale universale, la quale si esprime nella molteplicità degli esseri esistenti, rendendo possibile l’armonia globale del cosmo. Ci troviamo quindi in Giappone di fronte ad una religione di taglio chiaramente politeista nella sua espressione, ma che nel suo approccio al sacro richiama un Principio Vitale Originario unico come sorgente di ogni vita e motore interno dell’intero Universo. Lo scintoismo non si rifà a nessun fondatore né ha un corpus dottrinale rigido, ma è costituito da tutto un insieme di riti e miti, atteggiamenti e valori religiosi, che hanno la loro origine nel suolo giapponese e che si sono tramandati per generazioni nella religiosità popolare, avendo trovato un loro consolidamento e definizione in precisi momenti della storia giapponese grazie al sostegno del potere politico costituito. Non è quindi una religione per il singolo, ma per la collettività. Le sue manifestazioni girano attorno alla famiglia e al villaggio, e si proiettano verso la nazione giapponese e il cosmo. È una religione che nutre il senso del sacro in tutti i fenomeni naturali e in tutti gli aspetti della vita umana. Tutto sarebbe sacro, tutto in qualche modo sarebbe divino.
Tutte queste tradizioni, così come il buddhismo, hanno un approccio non personale alla Realtà Ultima; e di conseguenza, possiamo dire che offrono un’ermeneutica non personalistica della realtà umana. La rivelazione ebraico-cristiana mostra il volto personale di Dio e insegna il valore intrinseco ad ogni essere umano, proprio perché chiamato da Dio ad un rapporto personale con Lui e con gli altri esseri umani. La sapienza orientale, invece, riconosce la sacralità dell’esistenza umana e si apre con estremo rispetto verso il Mistero che la fonda, ma non si pronuncia esplicitamente sull’identità personale e personalizzante di Dio neppure dell’uomo.
L’uomo non si comprende “di fronte” al Divino, “diverso” dal Sacro: l’uomo è un tutt’uno con la Natura, è un’espressione dell’Ordine Cosmico, è “una parte” del Tutto. L’uomo, quindi, non ha valore in sé da solo. Il suo valore gli viene dato da ci che rappresenta per l’insieme: la Natura oppure la Società. L’uomo fa parte della Natura, che è proprio questo: Natura, Realtà Totale che contiene in sé il Divino, non realtà autonoma ma in un ultima istanza dipendente da Dio, il suo Creatore, così come invece è nella tradizione ebraicocristiana.
L’obiettivo massimo dell’uomo è comprendere il Tao (la “Via”) o il Dharma (la “Legge Cosmica”) e vivere in armonia con questo Tutto fondante. L’uomo non è un “tu” di un Dio Creatore e Personale, che fa l’uomo persona: è uno dei tanti volti del Tao/Dharma che si esprime nella persona umana, capace di divenire consapevole della propria esistenza, in più o meno grado secondo il maggior o minor impegno ascetico e meditativo.
L’uomo: centro dell’esperienza religiosa
Il confucianesimo e il taoismo in Cina (e nei paesi sotto il suo influsso culturale), lo scintoismo in Giappone, ed il buddhismo in tutti i paesi dell’Estremo Oriente, hanno nutrito la religiosità di questi popoli partendo sempre da un approccio pratico ed esperienziale. Si potrebbe dire che sono religioni che nascono “dal basso”, senza una pretesa di essere state suscitate “dall’Alto”. Non è un’esperienza rivelativa della Divinità ci che fonda queste religioni; ma è lo sforzo personale e collettivo dell’uomo per tirar fuori il meglio di sé, ci che lo apre alla dimensione religiosa.
Tra queste tradizioni, il confucianesimo è quella che più si incentra sul piano morale, senza sviluppare né una teologia né una mitologia che si interroghino o suggeriscano sulla Realtà Ultima. L’insegnamento di Confucio (551-479 a.C.), che per più di due millenni è stato un pilastro centrale della cultura cinese e anche degli altri popoli dell’Estremo Oriente, si fonda sul tentativo di restaurazione dei valori di una moralità antica, che basava le azioni sulle cinque virtù di gentilezza, rettitudine, decoro, giudizio e lealtà, oltre a insistere sulla venerazione per i genitori, sia vivi che dopo morti. Il fondamento dell’etica confuciana è il concetto di jen 仁 (termine che si pu tradurre come “amore”, “benevolenza”, “bontà” oppure “umanità”). Jen è la virtù fondamentale da cui derivano tutte le virtù. L’ideogramma de徳 (“virtù”) originariamente designava non primariamente una qualità acquisita attraverso un comportamento etico corretto, ma anzitutto una potenza o forza inerente alla propria natura. In Confucio, le qualità morali dell’uomo esprimono un ordine cosmico universale al quale l’essere umano nella sua esistenza contingente aderisce. Jen è, dunque, prima di ogni altra cosa, una manifestazione della natura profonda del Cielo riflesso nel cuore umano. Così come il Cielo è assenza di ogni falsità, così l’uomo deve essere sincero, cioè aderire pienamente alla propria natura e svilupparla integralmente: “La sincerità è la Via del Cielo, tendere alla sincerità la Via dell’uomo. (…) Tendere alla sincerità significa scegliere il bene ed attenervisi fermamente” . Se fa così, l’essere umano non solo perfeziona sé stesso, ma influisce sugli altri per il loro bene: “Solo colui che ha la massima sincerità sotto il Cielo è capace di trasformare gli altri” . Da questa prospettiva, la virtù di jen suggerisce relazionalità, proiezione verso l’altro, socialità. Significa accoglienza dell’altro all’interno di un rapporto interpersonale perfettamente consone alla natura più intima dell’essere umano. Ogni rapporto è importante e va rispettato e vissuto secondo ci che la tradizione ha tramandato: nel rapporto tra genitori e figli, tra sovrano e sudditi, tra fratelli, tra marito e moglie, tra amici. Si potrebbe dire che il confucianesimo ha un approccio socializzante nei confronti dell’uomo. Non insegna chi è l’uomo dal punto di vista metafisico; ma guida l’uomo per la via della giustizia e dell’armonia, cosmica e sociale.
Il taoismo, invece, fa una riflessione più metafisica sull’esistenza. È appunto l’insegnamento sul Tao, sulla Via; ma in ogni caso è fondamentalmente l’uomo la misura e l’orizzonte dell’esperienza religiosa. Il Tao Te King (“Il Libro della Via e della Virtù”), il testo sacro centrale di questa tradizione, inizia con queste affermazioni: “Conoscere gli altri è intelligenza; ma conoscere se stessi è saggezza superiore. Imporre la propria volontà agli altri, è forza; ma imporla a se stessi, è forza superiore. Essere sufficienti per se stessi è la vera ricchezza; governare se stessi è il vero carattere”. La vita umana è complessa e richiama sempre al Mistero, al Tao originario che si manifesta nelle molteplici vie che si aprono davanti all’uomo lungo la propria esistenza, la quale si trasforma senza sosta nell’interazione continua tra opposti: il maschile e il femminile, la luce e il buio, il positivo e il negativo, lo yin e lo yan.
L’esperienza dell’illuminazione del Buddha storico, su cui si basa tutta la dottrina e la prassi buddhiste, parte dalla constatazione dell’universalità dello stato esistenziale di insofferenza ed insoddisfazione dell’essere umano e dell’aver colto la possibilità di superare la sofferenza, vincendo l’ignoranza da dove essa proviene, mediante la visione sapienziale che l’ascesi e una pratica meditativa adeguate generano. Il buddhismo originariamente non si propone di dare una spiegazione metafisica astratta sull’esistenza o di pronunciarsi sulla Realtà Ultima, ma di aiutare l’uomo concreto ad evitare la sofferenza. L’obiettivo che propone ai suoi seguaci è il raggiungimento del nirvana, cioè di quello stato in cui non ci sono più tensioni né opposizioni dentro o fuori di sé, giacché ogni brama e desiderio si sono spenti come conseguenza dell’accettazione piena della realtà così com’è, nella consapevolezza perfetta dell’interdipendenza di tutti gli esseri senzienti e nella comprensione del Dharma, la Legge Universale che lega tutti i fenomeni tra di loro in una successione indefinita di cause ed effetti.
L’essere umano: un buddha in potenza
Il buddhismo nasce nel nord dell’India come una reazione al bramanesimo indù, al ritualismo devozionale della religione ufficiale che non dà risposte immediate all’infelicità umana. Non offre una teologia sulla Divinità, ma insegna all’uomo ferito come guarire del suo male esistenziale. “Chi persegue il proprio bene, si affretti a strapparsi di dosso la freccia che porta conficcata” , recita un antico aforisma attribuito al Buddha, il quale mantenne il suo silenzio sulla Divinità quando gli venne chiesto di pronunziarsi su di Essa.
Il Sūtra del Loto, uno dei testi sacri più significativi del buddhismo Mahāyāna, insegna che tutti sono destinati a diventare “buddha”, cioè “illuminati” o “risvegliati”. I desideri disordinati, che generano ansietà e sofferenza in se stessi e opposizioni e discordie con gli altri, nascerebbero dall’ignoranza di questa verità fondamentale dell’esistenza umana. L’essere umano raggiungerebbe la felicità attraverso la coscienza della propria intrinseca illimitata potenzialità di autotrascendersi. Da qui, la centralità che nel buddhismo ha il coltivare la consapevolezza di ci che accade dentro di sé e attorno a sé. Diventando coscienti di ci che si è, naturalmente l’atteggiamento interiore cambia e, di conseguenza, cambia esternamente il proprio agire.
La scuola di buddhismo Zen distingue tra il “sé passeggero” e il “vero sé”. Il primo sarebbe costituito dal corpo fisico e dallo spirito e sarebbe il sé che sperimenta la mutabilità legata alle sensazioni, alle sofferenze e alle gioie che porta con sé la vita quotidiana. Il secondo esisterebbe in qualche modo ancora prima di essere stato generato dai propri genitori. Il primo sarebbe il “sé osservato” ed il secondo il “sé osservante”. Questo “sé osservante” pu essere percepito in diversi modi, ma in ultima istanza è nel rapporto con gli altri che pu essere conosciuto.
L’uomo, nella tradizione buddhista, pur essendo sempre visto come parte di un Tutto e come manifestazione fenomenologica di un insieme di condizioni che lo delineano ad ogni momento concreto, è anche considerato come quell’esistenza capace di esprimere e di afferrare, nella propria coscienza, il Dharma che lo sorregge. È in questo senso che l’uomo diventa “centro dell’universo”; non nel senso egocentrico di mettere tutti e tutto al proprio servizio, ma nel senso che pu ritrovare in sé il legame con ogni esistenza, fenomenologicamente fuori di sé ma ontologicamente unita intrinsecamente a sé. La finalità del buddhismo, quindi, sarebbe quella di risvegliare gli esseri umani alla consapevolezza dell’unità indissolubile tra le proprie singole vite e la Vita dell’intero cosmo.
Un autore buddhista contemporaneo, Nikkyō Niwano (1906-1999), scrive: «Siccome siamo tutti figli del Buddha, dovremmo cercare di non avere pensieri ignobili, scorretti o fuorvianti, ma ricordarci costantemente che siamo in essenza Buddha e cesellare questo pensiero nei nostri cuori. Nelle nostre vite quotidiane, dovremmo essere decisi ad agire come figli del Buddha. Se faremo così, i nostri volti assumeranno un’espressione di nobiltà, saremo rispettati e stimati dagli altri, e andremo d’accordo» . L’espressione “figli del Buddha” va tuttavia interpretata in senso buddhista: la natura profonda dell’uomo non è altro che la stessa natura del Buddha. Infatti, non c’è, nella genuina tradizione buddhista, nessuna connotazione di un legame di tipo “personale” tra il Buddha e l’essere umano, attraverso un atto creativo o un intervento provvidenziale della Realtà Ultima nei confronti dell’uomo. Nel buddhismo, il Buddha rimane semplicemente il “corpo” del Dharma, cioè la sua manifestazione luminosa nella dimensione dell’esistente; non è mai né il Creatore, né il Benefattore provvidente che sceglie di sostenere la nostra esistenza.
La natura buddhica è un elemento essenzialmente comune a tutto ci che esiste, non una prerogativa degli esseri umani. La comune natura buddhica rende possibile l’armonia cosmica. È ci che esprime il concetto buddhista di jinen hōni 自然法爾, il “manifestarsi spontaneo della Legge Universale”, che indica come ogni cosa possa esprimere bene la propria unicità soltanto nel giusto rapporto con l’insieme. In questa visione, l’uomo scoprirebbe che «tutti gli esseri umani sono essenzialmente uguali e, allo stesso tempo, ciascuno possiede una propria singolarità»5.
Secondo il Sūtra del Loto, anche nelle persone malvagie la natura buddhica non viene meno. Il compito basilare di ogni buddhista, consisterebbe nel rispettare la natura buddhica in ogni essere umano e, nel contempo, di aiutare gli altri a scoprire la dignità di cui per natura sono investiti. Ed è per questo motivo che il buddhista venera non soltanto il Buddha, ma anche ogni essere umano nel quale il Buddha risiede in potenza.
Siccome la natura buddhica è inerente all’essere umano, di conseguenza, per riuscire ad esprimere il meglio di sé, basta che l’uomo ritorni alla sua genuina natura. I termini buddhisti giapponesi musō 無相 (“senza forma”) e musa 無作 (“senza azione”) esprimono la positività etica della “non forma” e dell’inazione. Non ci s’impone né una “forma” né un “agire” dal di fuori, ma si permette alla propria natura di sbocciare spontaneamente dall’interno di se stessi.
La visione buddhista, non contemplando la volontà creatrice di Dio che chiama l’uomo all’esistenza, non fornisce elementi determinanti che avallerebbero un maggior valore della vita umana rispetto a quella degli altri esseri senzienti. Nella tradizione buddhista, ogni vita va senz’altro rispettata come manifestazione del Dharma, ma non vi sono le categorie basilari su cui fondare chiaramente il valore inalienabile della vita umana, qualitativamente non paragonabile alle altre espressioni della vita nel mondo animale o vegetale. Il tratto fenomenologico che, tuttavia, distingue l’uomo dagli altri esseri viventi sarebbe la coscienza, ed è proprio questa che renderebbe l’uomo responsabile di come usa le proprie capacità.
L’uomo: un “essere in relazione”
L’ontologia buddhista si potrebbe condensare in poche parole: l’essere è relazione, la relazione è essere. Niente di ci che esiste, esiste fuori della relazione. Tutto ci che è relazione, “è”. Affermando che tutto l’esistente è interdipendente, il buddhismo vuole sottolineare che è proprio nell’interagire fenomenologico tra le cose che queste vengono all’esistenza. Ogni cosa esiste nella misura in cui è in interazione con ci che non è se stessa, ma che le fornisce la possibilità di essere; quindi, la relazione sarebbe il fondamento metafisico dell’essere .
Il buddhismo Mahāyāna, inoltre, ha sviluppato il concetto di śūnyatā, “vuoto”, come fondamento dell’esistente; cioè, nulla è in sé, ma ogni cosa è soltanto nella misura in cui è nel rapporto. In tal senso, per il buddhismo, la categoria della “relazione”, come fondamento ontologico, non sarebbe specifica dell’essere umano, ma sarebbe condivisa da tutto l’esistente.
È stato detto che «l’apporto teorico più originale prodotto dal buddhismo (…) consiste nella formulazione di una prospettiva che, in termini moderni, potremmo chiamare “modello” a rete”» . La realtà, infatti, viene analizzata non come un insieme di enti a sé stanti che entrano in relazione, ma come il frutto di un insieme di relazioni sincroniche e trasformazioni diacroniche, che generano il mondo fenomenico così come esiste momento per momento. I principi generali su cui si basa questa visione sono la teoria degli skandha (“aggregati”) e la teoria del pratītyasamutpāda (“coproduzione condizionata o interdipendenza”). Tutto ci che esiste ha una causa ed è condizionato da molteplici fattori, i quali hanno fatto sì che ci esista ora così com’è; allo stesso tempo, ogni cosa è causa originante ed è condizionante, pur se in modo parziale, di come esistono altri enti nella forma che attualmente rivestono. Niente di per sé esisterebbe, ma tutto esiste in interdipendenza con il resto, in una rete indefinita di cause ed effetti che configurano l’esistente. L’affermazione tipicamente buddhista dell’inesistenza del sé (sancs. anātman, giapp. muga無我) va intesa in questo senso. Non si tratta della negazione ontologica della realtà in quanto tale, ma di un sé assoluto esistente al di fuori della relazionalità. La dottrina sull’interdipendenza pu essere considerata quella più caratteristica dell’insegnamento buddhista e una delle poche pienamente in comune, anche nell’interpretazione dei suoi elementi essenziali, tra tutte le diverse scuole buddhiste.
Il punto essenziale sul quale divergono alla radice buddhismo e cristianesimo, si potrebbe individuare nell’idea della creazione ex nihilo, che si trova a monte della fede cristiana, completamente assente nella tradizione buddhista. Nel cristianesimo, l’uomo è una “creatura”, cioè un essere chiamato all’esistenza dal Creatore per un Suo specifico disegno d’amore. Nel buddhismo, l’uomo è un’“esistenza interdipendente” che esprime in un tempo e spazio precisi, mutando continuamente, l’eterna legge della causalità. Dalla prima visione, emerge il concetto di “persona” applicato sia a Dio, sia all’essere umano: Dio è il Soggetto Assoluto, fonte dell’essere e di ogni esistenza, che crea liberamente l’uomo come soggetto responsabile capace di accogliere o rifiutare il Suo progetto originario. Dalla seconda visione, si staglia il concetto di “inesistenza del sé”, chiave ermeneutica per spiegare nel buddhismo tutto l’esistente, incluso l’uomo.
Nella visione buddhista, l’affermazione dell’assenza del sé in sé è ci che apre l’uomo all’empatia compassionevole con gli altri, giacché viene superata radicalmente la comprensione dualistica che contrappone un “io” ad un “tu” esterno a se stesso. L’emblematica compassione buddhista nascerebbe, infatti, dall’interazione positiva tra due non-sé-in-sé che, avendo superato l’illusione dell’identità distinta, si incontrano grazie all’essersi liberati dal loro “io autonomo” illusorio.

Cinto Busquet

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